Turoldo chiudeva il suo libro del 1983, con il testo teatrale, con questa poesia, e anche Nicola Borgo chiudeva questo suo articolo, con la stessa poesia, per entrambi importante, ma non per la redazione del settimanale diocesano:
“O frate «Nessuno»”
Più non abitate conventi di pietra
perché il cuore non sia di sasso!
E anche voi, uomini, non fate
artigli delle vostre mani.
Liberi, o monaci, tornate
senza bisaccia, nudi
i piedi sull’asfalto.
Sia il mondo
il vostro monastero
come un tempo
era l’Europa.
Abbattete i reticolati di queste
città-lager,
dove ognuno è cintato
dal sospetto perfino del fratello,
di chi sia primo
ad uccidere.
Una tenda vi basti a riparo
dalle bufere,
e Dio ritorni
vagabondo
a camminare sulle strade,
a cantare con voi
i salmi del deserto.
Vi basti leggere il vostro
nome nel vento
e nel cielo azzurro:
mormorato
sotto una palma
nelle pause dei canti.
O frate Nessuno
sei l’antica immagine di Cristo
sparpagliato in ogni lembo
di umanità, vessillo
che ci manca …
Più la gloria non abita il tempio
da quando del pinnacolo
ha fatto sua stabile dimora
il tentatore.
° ° ° ° ° °
Alcune note per contestualizzare il testo di Turoldo e per meglio capire il commento di Nicola Borgo.
A cura di G. Ganis
TUROLDO, analogie profetiche
Don Nicola Borgo ha scritto un articolo, per
l’ultimo numero del settimanale dell’Arcidiocesi di Udine, intitolato “Turoldo, analogie profetiche”, sul testo
teatrale di padre Turoldo “Sul monte la
morte”, scritto nel 1983.
Uno dei responsabili delle pagine
culturali del settimanale, Stefano Damiani, gli aveva chiesto un commento su
alcune strofe del testo dove Turoldo avrebbe scritto alcune profezie relative al
coronavirus, profezie che circolano nel web da qualche mese, dopo la
pubblicazione di un articolo sulla rivista “Famiglia Cristiana” nei primi giorni
di aprile, durante il periodo del ‘confinamento’.
In realtà se si legge integralmente il
testo di ottanta pagine ci si rende conto, come scrive Borgo, che ci sono solo
alcune “analogie profetiche con quanto
stiamo vivendo in questi mesi”, anche
perché
se , secondo il dizionario Treccani profeta è “una persona che parla per ispirazione di una divinità, manifestandone
il volere e, spesso, preannunciando in suo nome il futuro”, per
Turoldo invece “Profeta non è uno che annuncia
il futuro, è colui che in pena denuncia il presente” (così lo descrive
negli ultimi versi della raccolta poetica “Nel
segno del TAU” del 1988 e in un intervista rilasciata allo scrittore
Valerio Volpini).
La genesi di quest’opera è ben descritta
da Roberto Carusi, (regista della prima rappresentazione del novembre 1983 a
Rovato, vicino a Brescia, nel convento dei Servi, che aveva conosciuto padre Turoldo
nella primavera del 1983 a Milano, durante il 20° Congresso eucaristico
nazionale) che così spiega nella “Testimonianza” pubblicata, alla fine del
testo, nell’opera omnia del teatro di padre David, edita dall’editore
“Servitium” nel 1999:
Mariangela Maraviglia nell’articolo “David Maria Turoldo. Ricognizione bibliografica
su un protagonista della chiesa italiana del Novecento”, p.888, pubblicato
nel numero 1 del 2014 della rivista quadrimestrale "cristianesimo nella storia" (vedi: http://ilridotto.blogspot.com/2015/08/turoldo-20163ricognizione-bibliografica.html), scrive:
“Dall’unica opera narrativa di Turoldo, La morte dell’ultimo teologo, pubblicata nel 1969, 50 nasce Sul monte la morte (1983), in cui compaiono, incarnazione di una morte ancora umana contro la disumanità della tecnica, i sette santi che nel Duecento diedero vita all’ordine dei Servi di Maria, celebrati nel 750° anniversario della fondazione.”
“Dall’unica opera narrativa di Turoldo, La morte dell’ultimo teologo, pubblicata nel 1969, 50 nasce Sul monte la morte (1983), in cui compaiono, incarnazione di una morte ancora umana contro la disumanità della tecnica, i sette santi che nel Duecento diedero vita all’ordine dei Servi di Maria, celebrati nel 750° anniversario della fondazione.”
50
D.M. Turoldo, ...e poi la morte dell’ultimo teologo,
Torino 1969. Come spiegato in quarta di copertina, si tratta di tre racconti
che suggeriscono un’inquietante e salutare meditazione sul conflitto fra
l’esistenza autentica e la civiltà meccanizzata, fra l’uomo libero e gli schemi
entro cui si trova soffocato.
Fra i molti mali ci sono anche le epidemie (la lebbra, le pesti, il colera, il vaiolo, la spagnola, l’AIDS (che esplose nel 1981), …); alcuni versi riprendono chiaramente quelli scritti da Paolo Diacono sulla terribile peste di ‘Giustiniano’, quando arrivò in Liguria, a metà 500.
Il tutto era iniziato, nell’opera teatrale, con i piccoli tremori di un terremoto seguito da una nube tossica (il dramma di Seveso accadde nel luglio del 1976 poco dopo il terremoto del Friuli) e poi la continua moria delle persone nell’isola felice prosegue con una tragedia nella miniera (numerosi furono gli incidenti nelle miniere di carbone del Belgio negli anni ’50 \ ’60 del 1900, dove morì anche uno dei suoi fratelli), con il bradisismo (in Campania nei primi anni ‘70 e ‘80), il maremoto, le alluvioni, le frane, lo ‘scoppio’ della diga (‘la morte col fango in bocca’, il Vajont), l’inquinamento dell’acqua, l’epidemia, la siccità, l’incidente nucleare.
Dopo ogni tragedia, nel monastero sul monte dell’isola, morirono uno a uno tutti i sette frati, nella loro cella.
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