Nell'aprile del 2015 al Ridotto era stato presentato (con un convegno e una mostra) l'artista FEDERICO DE ROCCO, uno di 5 emeriti di Sedegliano, già presentato nel giugno 2014
(vedi blog dell'aprile 2015 e dell'8 giugno 2014).
Ora alcuni sui quadri sono in mostra nell'abbazia di Sesto al Reghena (PN)
“Con il piede
straniero sopra il cuore. Europa 1943-1945: tre testimonianze friulane.
Moretti, Ceschia, De Rocco”.
28 novembre 2015 - 10 gennaio 2016.
Abbazia Santa Maria in Sylvis a Sesto al Reghena
Mostra d’arte a cura di:
Presenza e Cultura e del Centro Iniziative Culturali Pordenone
INGRESSO LIBERO
Orari: giovedì/domenica/festivi 10 -12 e 15 - 19
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A
Sesto al Reghena mostra sulla Seconda Guerra Mondiale, per aprire uno sguardo
intenso non solo alle vicende dei campi di battaglia, ma anche ai massacri nei
campi di concentramento, dove una razionale macchina organizzativa e
burocratica fu messa al servizio della strage.
Anche
la testimonianza dell’arte può gettare un fascio di luce su quegli anni di buio
così tetro, ed è questo l’obiettivo della mostra organizzata in collaborazione
con il Comune di Sesto al Reghena.
Info: 0434 365387 _ www.centroculturapordenone.it
Il pordenonese Mario Moretti, l’udinese
Luciano Ceschia e il sanvitese Federico De Rocco sono personalità note dell’arte
del Novecento, accomunate da forti esperienze di guerra e reclusione nei campi d’internamento.
«All’epoca – spiega il curatore della mostra, Giancarlo Pauletto – tutti e tre
gli artisti avevano meno di trent’anni. Erano quindi impegnati nelle loro opere
giovanili, già assai probanti di una maturità tecnica e culturale».
MARIO
MORETTI (Reggio Emilia 1917 – Pordenone 2008) studiò all’Accademia di Venezia
avendo come maestro Bruno Saetti, operò per molti anni come insegnante in area
pordenonese, fu pittore, scultore, ceramista, orafo, allestì molte mostre
personali, partecipò quattro volte alla Biennale di Venezia e fu presente anche
alla Quadriennale di Roma. Militare e ufficiale, l’otto settembre 1943 è a
Dubrovnik, da dove viene internato prima in Polonia, poi in due campi tedeschi
non lontani dai confini danesi. Dalla prigionia riesce a riportare uno
straordinario gruppo di disegni e acquarelli che testimoniano la vita nei campi
in cui fu internato. Sono figure colte nella desolata solitudine delle baracche,
distese sulle brande in atteggiamento d’abbandono, oppure raccolte attorno a un
tavolo, o nei rari momenti di svago rappresentato soprattutto dalla presenza di
strumenti musicali. Sono spesso figure isolate, ammalati in attesa della
guarigione o, più probabilmente, della morte: qualcuno ha lo sguardo fisso,
allucinato, altri sono fermi in attesa, qualcuno legge, qualcuno dorme. In un
autoritratto Moretti si rappresenta con il berretto militare, la testa
fasciata, la pipa in bocca, lo sguardo fisso in avanti. C’è uno smarrimento nel
volto, che l’autore riesce ad oggettivare benissimo, testimonianza di una
capacità di riflessione che le dure condizioni del campo non sono riuscite a
spezzare, l’artista sopravvive nell’uomo, anzi, l’artista è, in questo momento,
la forza stessa dell’uomo. Poi c’è lo sguardo all’esterno, sul breve, limitato
paesaggio che dalle baracche può essere colto: magri alberi, torrette, scure
costruzioni, binari, il bosco esterno come una specie di desiderio, le figure
degli internati appoggiate qua e là, isolate, ognuna carica della sua pena,
ognuna stretta alla sua sopravvivenza: tutto è fermo, bloccato nell’autunno e
nell’inverno di questi paesaggi, la resistenza nella vita è una volontà
sotterranea, ostinata, aspetta un futuro che non può crearsi da sola.
LUCIANO
CESCHIA (Tarcento 1926 – Udine 1991) si formò nel disegno e nella pittura a
contatto con Tiziano Turrin, valido pittore tarcentino, indi nella scultura con
Antonio Franzolini a Udine. Fu prigioniero in Germania nel 1944-45, nel
dopoguerra frequentò il liceo artistico a Venezia, poi interrotto; partecipò
alle attività del gruppo neorealista friulano, fu presente nel 1962 alla
Biennale di Venezia, allestì importanti mostre personali tra l’altro a Roma,
New York Toronto, Vienna, operò con il ferro, con il cemento, con la pietra,
con il marmo, fu eccezionale ceramista. Come spesso gli scultori, Ceschia fu un
forte disegnatore, negli anni a cavallo del 1950 e poi lungo il decennio
affrontò con impegno il tema partigiano e contadino, lasciando carte dal forte
impatto chiaroscurale, a volte di grandi dimensioni, percorse da un tono epico
e popolaresco. Importa all’artista mettere in evidenza, della resistenza contro
il fascismo, la necessità morale, il fatto che si trattava di recuperare una
dignità di popolo perduta, da ciò l’impianto largo di queste figure, anche
quando si tratti di non grandi dimensioni. Di una simile forza l’artista dava
contemporaneamente prova anche nella scultura: due terrecotte, in mostra,
testimoniano di questa capacità, il ritratto di un capo partigiano e la
potente, drammatica testa di un recluso, di un torturato: la volontà di dire
diventa qui una maschera espressionista di formidabile capacità comunicativa.
FEDERICO
DE ROCCO (Turrida di Sedegliano 1918 – San Vito al Tagliamento 1962) studiò a
Venezia con Saetti, partecipò alle mostre del neorealismo, fu presente alla
Biennale di Venezia e alla Quadrienale di Roma, fondò, assieme a Pier Paolo
Pasolini e ad altri artisti ed intellettuali la celebre Academiuta di lenga
furlana, collaborando all’altrettanto celebre Stroligut, per il quale diede
disegni e incisioni. Militare, durante la guerra, sul fronte francese, dopo
l’otto settembre riuscì a rientrare a San Vito, riportando dalla sua esperienza
un gruppo di disegni che sono un pregevole diario dei tempi; successivamente si
impegnò in una serie di opere aventi a tema i rastrellamenti tedeschi, le
azioni partigiane, i lutti e le morti di quei tragici momenti. I disegni
militari del 1942/43 colgono con immediatezza momenti di vita, sono, per così
dire, esercitazioni a rendere la realtà nel suo peso e nell’accidiosa
sospensione dei giorni di guerra. I disegni partigiani – che hanno tutti la
natura dello studio, dell’impostazione che vorrebbe poi tradursi in opera
finita, e in effetti alcuni di essi divennero oli su tela – hanno una
drammaticità resa con grande efficacia, il Partigiano impiccato e il Partigiano
ferito sono due prove di grande maturità, l’artista non ancora trentenne
dimostra qui di aver trovato la sua strada, quella di un realismo profondamente
antiretorico, atteggiamento che sarà proprio anche di tutta la successiva
attività del pittore.