1 novembre 1991 _ Padre David intervistato dal Gazzettino
Intervista a Padre Davide Maria Turoldo
sul dolore, la malattia, la sofferenza e la morte
di Roberto Vinco
IL POETA DI DIO SFIDA LA MORTE
(L’intervista è stata pubblicata sul giornale «Il Gazzettino» – edizione di Verona «Il nuovo Veronese» del 1 novembre 1991)
Gli avevano dato non più di sei mesi di vita. Lo avevano operato ad un tumore all’intestino. Dal punto di vista medico non c’era nessuna speranza. Dopo tre anni, padre David Maria Turoldo, il poeta di Dio, il monaco ribelle ma fedele, lo abbiamo risentito qualche settimana fa (settembre 1991, vedi foto) ancora una volta in Arena con i «Beati i costruttori di pace» a cantare la sua speranza di pace e il suo amore per l’uomo. Dopo ben tre operazioni, il corpo smagrito, visibilmente stremato dalla malattia, non ha ancora perso il suo vigore e la sua straordinaria forza e carica umana. Ha vissuto sempre “fuori delle mura”, sempre in diaspora, sempre in cammino… in conflitto con il potere, con le istituzioni, con la Chiesa.
La vita di Turoldo è insieme un canto e un pianto. Il canto di chi crede e il pianto di chi soffre. A Verona padre David ha molti amici. Come monaco servita è stato ospite per alcuni mesi della comunità dei Servi di Maria della chiesa cittadina di Santa Maria della Scala. Proprio con un gruppo di amici veronesi siamo andati a trovarlo nella sua meravigliosa abbazia di Sant’Egidio a Sotto il Monte in provincia di Bergamo. É visibilmente stanco, ma quando incontra gli amici, quasi si ricarica, recupera tutte le sue antiche forze, ritrova tutto il suo profondo spirito profetico. Della sua malattia parla con serenità.
Il suo tumore lo chiama «Il drago che si è insediato nel ventre». Con il cancro ha imparato a lottare e a convivere. «La mia malattia – ci dice – è un’esperienza consapevole, giocata a carte scoperte. Alle pietose menzogne dei medici ho preferito la verità. In un primo momento è tremendo, è crudele. Ma accettare il cancro è già metterlo a disagio, sfidarlo». Da tre anni sfida con il canto e la poesia anche la morte, accettata con serenità come l’altra faccia della vita.
«Per me la morte è sempre stata come una fessura attraverso cui guardare i colori della vita, apprezzarne i valori. La morte è una presenza positiva, fa apprezzare meglio il tempo, fa giudicare meglio le cose. Ogni mattina dico, se questo è il mio ultimo giorno non posso perderlo. Vivo ogni giorno, non come fosse l’ultimo, ma il primo. Penso che non ci sia nemmeno un di qua e un di là, ma semplicemente un prima e un dopo. Una continuità. Questo certamente è il senso misterioso della nostra fede, ma non è assolutamente un discorso che si fa soltanto per chi ha fede. Il discorso sulla continuità della vita, si può farlo anche con chi non crede, con chi non ha fede. Non è un discorso consolatorio, ma di constatazione. Io posso anche dire «non so come sarà dopo», ma nessuno mi può dire che non ci sia».
Il tema di tutta la sua poesia è Dio. Un Dio che non è ricerca astratta, ma ricerca che si coniuga con la vita, con la realtà umana di tutti i giorni. Un Dio che non ti dà sicurezze e certezze, ma la speranza di guardare sempre avanti con coraggio. Un Dio che non è lì per controllarti e punirti, ma un Dio che ti è vicino, ti capisce, ti ascolta, ti ama.
– Ma come si può conciliare questo Dio con la sofferenza, con la malattia?
«Io penso che il dolore, la malattia, la morte, non siano soltanto il dramma dell’uomo, ma anche il dramma di Dio».
– In che senso?
«Nel senso che il limite di Dio è la libertà dell’uomo. Mi spiego. Dio ha un amore tale per l’uomo, per la sua creatura, che non può non lasciarla libera. Se accettiamo un Dio che vuole che l’ordine della creazione e della storia abbiano una loro valenza autonoma; se Dio vuole che gli uomini siano liberi: liberi di usare e di abusare, liberi di fare il bene o di fare il male, Dio, per primo, deve rispettare questa autonomia e questa libertà. Perciò se tu vuoi che per ogni caso Dio intervenga, tu annulli quello che si chiama il gioco delle cause seconde, gli spazi per la libertà umana».
– Ma allora, secondo questa logica, a Dio non si può nemmeno chiedere la guarigione.
«Io non penso che sia giusto pregare perché Dio mi guarisca. Proprio perché è impossibile che Dio abbia a che fare con la mia malattia. É impensabile che il Dio di Gesù Cristo voglia il cancro. Se fosse stato veramente Dio a mandarmi il tumore, come potrei curarmi? Dovrei andare contro la volontà di Dio».
– Allora sbagliano quelli che pregano perché Dio li guarisca?
«Li posso capire, ma solo a livello umano. Lo posso ammettere come sfogo necessario, come rimedio all’angoscia. É stata anche per me una scoperta di questi anni di malattia, una scoperta terribile, ma consolante».
– E nei momenti di sconforto, di disperazione, quando si rivolge a Dio, cosa gli dice, cosa gli chiede?
«Io non prego perché Dio intervenga. Chiedo la forza di capire, di accettare, di sperare. Io prego perché Dio mi dia la forza di sopportare il dolore e di far fronte anche alla morte con la stessa forza di Cristo. Io non prego perché cambi Dio, io prego per caricarmi di Dio e possibilmente cambiare io stesso, cioè noi, tutti insieme, le cose. Infatti se, diversamente, Dio dovesse intervenire, perché dovrebbe intervenire solo per me, guarire solo me, e non guarire il bambino handicappato, il fratello che magari è in uno stato di sofferenza e di disperazione peggiore del mio? Perché Dio dovrebbe fare queste preferenze? Perché dire: Dio mi ha voluto bene, il cancro non ha colpito me ma il mio vicino! E allora: era un Dio che non voleva bene al mio vicino? E se Dio intervenisse per tutti e sempre, non sarebbe un por fine al libero gioco delle forze e dell’ordine della creazione? Per questo per me Dio non è mai colpevole. Egli non può e non deve intervenire. Diversamente, se potendo non intervenisse, sarebbe un Dio che si diverte davanti a troppe sofferenze incredibili e inammissibili. Ecco perché, come dicevo prima, il dramma della malattia, della sofferenza e della morte è anche il dramma di Dio».
– Di fronte al dolore quindi, anche per un credente, ci può essere solo rassegnazione?
«Non rassegnazione, ma pazienza, che è tutt’altra cosa. Per il credente l’unica risposta al dolore e alla morte è la resurrezione di Cristo. La sua resurrezione infatti è la vendetta di Dio sul male del mondo. Quindi la risposta migliore è sempre quella di Cristo, che alla fine dice: «Padre, nelle tue meni rimetto il mio spirito». Una risposta però da non dire solo alla fine, ma dirla sempre; e forse così si riuscirà ad essere perfino “beati nel pianto”».
– Spesso ci si trova di fronte ad amici colpiti da qualche malattia grave o dalla morte di qualche persona cara. Cosa si può dire in questi casi?
«Ci sono dolori per cui non esistono parole in nessun dizionario. Dolori e angosce davanti alle quali la risposta migliore è il silenzio. Di fronte a certe tragedie, a certe sofferenze non servono né filosofie, né prediche.E il rimedio migliore, dico rimedio, non risposta, sarà semplicemente la tua partecipazione di amico, la tua presenza amorosa, il tuo «essere con» la persona sofferente, l’ammalato. La migliore risposta pratica quindi è «l’essere con», è il silenzio, l’accettazione per quanto possibile. Anche se questo non deve significare rinuncia a lottare, a cercare ogni sforzo per guarire. L’importante è non darsi mai per vinti e ricominciare ogni volta da capo».
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