mercoledì 7 marzo 2012

TUROLDO E IL "SUO" FRIULI_La singolarità di un’esperienza


Turoldo e il “suo” Friuli
 
«Una delle preoccupazioni della mia vita – afferma Turoldo – è stata quella di non sentirmi sradicato, quella di non tagliare con le mie radici:
La mia prima radice è la mia terra… essa per me è l’immagine di mia madre, oppure l’immagine di mia madre è l’immagine di questa mia terra; guardavo da ragazzo il volto della Madonna e il volto di mia madre e non sapevo distiguere e l’una e l’altra di confondevano; vengono fuori tre unità: della terra, della madre, della Vergine fuse insieme tra loro. Questo è il mio punto di partenza fondamentale».
Turoldo si sente frutto di una originaria fecondità che accomuna in una preziosa sintesi la generazione che viene dalla terra, che diventa dono nel seno della madre, che approda ad un compimento nell’evento di Maria.
«La seconda radice – continua – legata alla prima è la mia gente. Gente di lavoratori, gente di cuore e povera… Non ho mai ceduto al pauperismo, ma ho sempre sentito la povertà come una presenza profetica nella storia: perciò non ho mai abbandonato i poveri. Anzi, ho sentito questi come un grande privilegio, perché attraverso la povertà ho imparato tutti i valori della vita… È stata la povertà la radice delle mie scelte… e intendo la povertà come fondamento della stessa vocazione».
Lo sguardo di Turoldo si allarga con un senso di appassionata appartenenza alle persone del Friuli da lui conosciute nel tempo della sua infanzia e della sua giovinezza con una descrizione sofferta delle condizioni di vita (erano gli anni Trenta del secolo passato).
«Appartengo ad una stirpe di emigrati; sono proprio come uno di questi emigranti, che per quanto faccia fortuna nel mondo ha un solo desiderio: di essere sepolto nella terra dove è nato; ritornare in seno alla stessa terra e la mia terra è il Friuli…».
Nella fase più sentita della sua presenza in Friuli, soprattutto nel periodo del terremoto, tenterà nei suoi interventi una lettura dai contorni storici largamente emergenti.
«Friuli: una regione, anzi per la sua storia più che una regione, una piccola patria – sempre dentro il più ampio spazio della madrepatria – e cioè, ora che è stata distrutta una civiltà che il mondo neppure conosceva».
Turoldo osa evidenziare la marginalità in cui per secoli ha vissuto il popolo friulano e soprattutto la sua singolare identità di storia, lingua e cultura. Di fronte all’urgenza di un nuovo futuro, stimolerà le secolari virtù della gente friulana, con un accento di particolare attualità: «Tutto dipende (…) dalla salvezza delle civiltà locali». E questa attenzione si colora di una prosa poetica singolare che ha nel fondo l’irrinunciabile memoria della sua infanzia.
«Si tratta di un popolo povero e sempre viandante: sempre in attesa di una liberazione che deve conquistarsi con il suo sudore e forse anche con il sangue; sempre sognatore di un regno più giusto per tutti: un regno giusto anche di quaggiù e di ora. Un popolo cantore sulle strade delle moderne deportazioni come Israele cantava i salmi dell’esilio; un popolo così serio e così laborioso per secoli».
Il riferimento alle pagine della Scrittura e alle condizioni del popolo ebraico suggellano l’istanza di una teologia della storia, tentazione costante e preziosa, anche se impropria per una lettura severa e documentata della vicenda friulana. Turoldo potrà vedere il Friuli ricostruito, ma profondamente mutato nelle scelte che qualificavano un costume di vita e di relazioni conseguenti.
L’affezione «al suo essere antico, geloso delle sue tradizioni, sempre più cosciente della sua storia, fedele alla sua lingua seme e condizione di libertà» si fa perorazione testamentaria in una “Salmodia”:

Mia gente, ritorna alla fonte segreta
donde traevi la prodigiosa forza
a misurarti con la sorte, e umile
volontà ti soccorreva a non cedere,
e orgoglio ti rendeva leggendaria
nell’inaudita fatica: ancora
germoglino le nodose radici
e insieme alle corti in mezzo ai campi
risorga dalle macerie la tua
nobile anima, ora che altra
morte più amara ti minaccia.
Una diga innalza di affetti e ricordi
a queste “monoculture” d’America:
il tesoro difendi della tua dignitosa
povertà degli avi e la memoria
sia il tuo blasone: memoria
dei tuoi vespri domenicali quando
una festosa umanità inondava
villaggi e campagne: ora che invece
serpenti di macchine pure te
assediano da tutte le strade, e pure te
seduce questo furioso fascino del Nulla;
e non un segno ormai traspare
di gioia dalle tue sagre, e di droga
figli anche tuoi, o mio Friuli,
appassiscono dalle serene contrade:
tu che eri, Friuli, il paese raro
della “meglio gioventù”: mio Friuli
ritorna ad essere la terra
che il mondo con invidia amava,
l’Eden che dalla capitale devastata
il tuo poeta sognava: un Eden
finalmente raggiunto
dopo l’inevitabile morte…


Alcune osservazioni


Turoldo nel film Gli Ultimi sembra riconoscere il carattere subalterno della condizione contadina. Essere contadini significava essere “ultimi”, vittime (del feudatario, del latifondista, delle banche ecc.) di un mercato comunque che decide inesorabilmente fuori dal mondo contadino il valore della terra e dei suoi prodotti. Significa essere, di fatto, nelle mani di qualche altro.
Sembra di dover constatare, nel contempo, che solo uscendo dalla condizione contadina ci sia speranza di riscatto.
Casa natale di David Maria Turoldo a Coderno (UD)
Storicamente e dovunque le lotte contadine sono state perdenti oltreché dolorose. Questo non ha aiutato a rendere accetto Turoldo alla maggioranza dei friulani. Suscitò simpatie, ma anche rifiuti.
Le prese di posizione nel terremoto sono state, per molti, dovute dalle circostanze, preziose ma vagamente retoriche.
La convinzione forte che proprio nel mondo contadino o meglio nella civiltà contadina si trovino i valori fondativi di una vera umanità, fraterna, solidale, in sostanza da ricuperare, avveniva negli anni in cui il Friuli usciva dalla sua marginalità e cominciava a partecipare ad un benessere sognato anche se incipiente (erano gli anni Sessanta del secolo scorso).

L’ottica di Turoldo sulla storia del Friuli aveva riferimenti severi di tipo morale che privilegiavano un costume severo, essenziale, garante dei valori di fondo di matrice evangelica garantiti in qualche modo in Friuli dalla civiltà contadina in condizioni di necessità più che di libertà. È presente il fondo storico-sociale, ma come larga cornice.
C’è in Turoldo un riferimento storico-antropologico di sapore biblico: “Gli ultimi saranno i primi”. Da qui una cultura della povertà come “libertà” per un rapporto autenticamente umano capace di superare, in libertà appunto, le stesse misure che offrono le istituzioni sociali. Il legame con la terra sembra portare con sé una duplice valenza che è salvezza (se lo lasci) e nello stesso tempo è dannazione se l’abbandoni (perdita dei valori fondamentali).
Egli rivive la realtà trasfigurandola. Da notare ancora che “partenza ed esilio” nella sua poesia sono vissuti insieme come tradimento e come salvezza: la salvezza non è mai ancorata, la trovi sempre andandotene (cfr. Abramo), viene da fuori e ha il volto dello straniero; sta sempre in qualche cosa che non si lascia mai catturare e che non può mai dire: “è mio”.
Paradossalmente qui sta l’universalità di Turoldo, la sua irriducibilità agli assoluti etnici.
Si può affermare che il Friuli di Turoldo alla fine è una figura (poetica?) del luogo mitico della partenza e del ritorno, della rottura e del ritrovamento?
Più analiticamente luoghi, persone (casa, paese, fiume, fontana, la madre, il padre, la terra, la vigna…) sono figure, acquistano “il di più” di significato e valore da superare una funzionalità contingente. Il Friuli in questo senso è un luogo originario, rivissuto come tale e quindi anche il luogo dell’ultimo approdo.
La stessa realtà della madre è una figura intensa, utilizzata come evocazione di un’eredità popolare colta nel suo nucleo più vero e radicale: «La madre mia contadina del mio Friuli, la più povera del paese, usava dirmi: - Figlio, sono cose troppo grandi per noi!».


Il paese, il “suo” paese, quello dell’infanzia (in un Friuli filtrato dalla memoria, con la “sua” gente presto abbandonato) resta emblema fondante dell’autenticità.
L’eredità friulana di Turoldo non è la città o la cittadina, ma sempre e solo il paese, i paesi. Il paese ha un significato simbolico in Turoldo (dal punto di vista rigidamente storico ha ben poco significato): il paese è soprattutto luogo di relazioni, viene in qualche modo trasfigurato a dispetto della città sentita luogo di loculi abitati, termitaio frequentato da turbe, folle, mandrie, luoghi dell’antipopolo o popolo ridotto a pubblico: «Ritornate, amici, ritornate / nel nostro cortile / infossato tra le case, / venite in mio soccorso / a riprendere i giorni sotterrati. / Siamo un grappolo d’uva / che cola mosto amaro» (O sensi miei…, p. 69).
Turoldo inoltre nel suo vocabolario ama la “comunione” anziché il collettivo, a “popolo” preferisce “gente”: «La mia gente, tutta la gente, la folta gente, l’infinita gente, il cuore della gente, i volti della gente, l’antica gente, l’umile gente…» fino alla Salmodia della povera gente, dedicata al fratello Lino. (O sensi miei…, p. 310).
“Gente” è parola che nel senso originario implica relazioni e legami di parentela dove sangue e corporeità sono essenziali più che scelte ideologico-politiche, che fanno i popoli e le nazioni.
Figura di questa “gente” dalla povertà dolorosa, dignitosa e solidale sono il padre e la madre. Questa è la sua gente per definizione. Da notarsi che Turoldo accorda a questa gente di paese la capacità, strutturale nei poveri, di attesa, di speranza, di apertura e in forza di questa loro condizione, la necessità in loro di farsi domanda umile e inquieta sul mistero del mondo, dell’ingiustizia, sui beni mal spartiti, sulla sofferenza non meritata.

Questa eredità friulana della “sua” gente Turoldo la allarga come simbolo-attesa-testimonianza di una realtà più ampia del paese al punto che viene annullato il confine tra morte e vita, patrimonio vivente della religiosità popolare:
«Tu piangevi
se la sera non dicevamo
le preghiere
con tutti i morti del paese…
che allora tornavano per l’orto
e circondavano il focolare e la mensa
e sedevano alla scala.
Quanti morti, generazioni
intere…
…Allora io ultimo rimasto a casa
dovevo assumerli
quando mi portavi sotto l’altare
della Consolazione nella chiesa vuota.
Così o madre, non più uomo hai partorito
ormai non solo i tuoi figli sono
ma tutto il popolo».

Il canto ormai perduto dei notturni nel venerdì santo, anima della religiosità popolare friulana, risuona nella poesia che Turoldo dedica allo scrittore Riedo Puppo, coscienza della friulanità:

«Ierusalem, Ierusalem,
Consolamini
popule meus…»

un latino caro e liberante i moti dell’anima nei momenti più drammatici.
Popule meus… nella coscienza di Turoldo è illusione un popolo fondato su se stesso: diventa idolo. Acquista la sua identità quando decide di essere di Qualcuno e non di uno qualsiasi.
Essere di Dio per Turoldo è la sola garanzia di non essere asserviti a qualche padrone: è garanzia di libertà.
Un messaggio di grande attualità per il Friuli del post-terremoto impegnato in un futuro capace di ri-generare le specifiche virtù di ieri nei nuovi contesti in cui si viene a trovare.



Testi di riferimento

D. M. Turoldo, O sensi miei… [Poesie 1948-1988], Milano, Rizzoli, 1990
M. Nicolai Paynter, Perché verità sia libera. Memorie, confessioni, riflessioni e itinerario poetico di David Maria Turoldo, Milano, Rizzoli, 1994
D. M. Turoldo, Introduzione, in Troi di mindusiis. Momenti di religiosità popolare in Friuli, testi e didascalie di F. Tassin, Udine, Il campo, 1988

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