mercoledì 7 marzo 2012

Cercatore di Dio a servizio dell’uomo

Affresco del 1500  nella Chiesetta di Sant' Antonio Abate - Barbeano (PN)



David M. Turoldo concludeva il suo itinerario terreno il 6 febbraio del 1992. Larghissima e incontenibile la risonanza di questo evento nella nostra Italia.

La sua personalità di poeta, di oratore travolgente, di saggista robusto, di drammaturgo impegnato hanno risvegliato energie spontanee e riflessioni mature commemorative della sua testimonianza religiosa e civile.
La sua poesia, soprattutto, è scoperta del mistero e della bellezza del creato, nonché urlo religioso, canto della propria infelicità, partecipazione alla tragedia del mondo.
Nel corso di questi vent’anni che ci separano dalla sua scomparsa, l’attenzione più urgente da parte dei ricercatori e dei media è stata orientata alla sua testimonianza civile. Egli ha attraversato con una immersione acuta gli eventi che si sono succeduti dagli anni Quaranta del secolo che abbiamo alle spalle fino quasi alla sua conclusione. Basterà ricordare la sua presenza a Milano durante la Resistenza e i primi progetti di riavvio dell’esperienza democratica nonché la sua sensibilità per un’appartenenza alla Chiesa nutrita delle fonti patristiche, riconsegnata alle radici di una comunione mistica, aperta al dialogo con la contemporaneità.
Particolarmente prezioso il periodo della sua presenza a Firenze, vero laboratorio negli anni Cinquanta di una progettazione nuova della convivenza civile e scavo creativo per una prassi cristiana, che maturerà anche istituzionalmente nella realtà del Concilio Vaticano II.
La sintonia con Giovanni XXIII lo condurrà a Fontanella di Sotto il Monte per quasi un trentennio, dove si intensificherà la sua testimonianza di fede con un’attenzione alla dimensione liturgica di cui curerà inni di sua creazione, a cui consegnerà due sue traduzioni dei salmi perché diventino canto dell’assemblea e struttura portante di ogni preghiera personale e comunitaria, vero suggello della comunione del mistero di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio.
A questo impegno per la liturgia si affiancherà una rivista, “Servitium”, che consoliderà la visione cristiana della vita e dei problemi che essa pone a fronte di una concezione e di un costume che si facevano sempre più secolari, ma con un intendimento positivo: cogliere nei nuovi assetti le tracce dell’umano e le eventuali urgenze evangeliche.
Questa interiorizzazione, anziché chiudere la sensibilità per il mondo, la rendeva più acuta e più universale. Prima di tutto un’antropologia biblica che portava a compimento esistenziale la sua stessa tesi di laurea: “Per una ontologia dell’uomo”. Di lì più appropriata e profeticamente ispirata l’urgenza della libertà come condizione di una giustizia corretta e umanizzata dall’amore, libertà e giustizia condizioni indispensabili per la realizzazione di possibili frammenti di pace, segni di una pace messianica dono prima che conquista.
A Fontanella di Sotto il Monte quindi p. David vive una condizione umano-spirituale ottimale in un contesto locale contadino e di un gruppo di collaboratori dove la preghiera segna l’ossatura della giornata, in un clima di rapporti dove la fraternità è legge, dove i mali del mondo-altro vengono sì denunciati ma in una prospettiva di redenzione-salvezza.
In questa cornice possiamo ritornare alla sua poesia e ad alcuni vissuti particolari.
La poesia di Turoldo fiorisce sotto i cieli della fede biblica, in essa si radica e si sviluppa. La presenza di Dio è una realtà avvolta di mistero, quasi ossessiva; fa ballare il poeta «come un orso sulla corda», che non si stanca di interrogarlo: «Chi sei? Dove sei?». «Mentre ti respiro, mentre ti inseguo, tu m’insegui. In questo continuo gioco, io indovino il volere di Dio, che naturalmente si riversa poi sul senso dell’uomo, l’uomo come involucro stesso della divinità, come tabernacolo vivente. L’uomo è il nascondiglio di Dio, e così anche la Chiesa […]. Sono i miei amori. Sì, Dio e la Chiesa sono i miei amori, attraversano tutta quanta la mia tematica».
Il Dio di Turoldo non è il Dio dei filosofi o dei teisti, ma neppure il Dio delle devozioni consolatorie o delle alienanti liturgie, ma il Dio della Bibbia, della mistica che ci scruta come un falco appollaiato sul nido, ci insegue e ci provoca, ci schiaccia e ci rialza, ci avvicina e ci sfugge. Dio-mistero, Dio-silenzio, Dio-tutto, Dio-nulla, Dio lontananza-vicinanza. Una sua composizione esprime lo smarrimento della mente dinanzi all’interrogativo che urge drammaticamente: Chi è Dio?


Dio, sei il mio respiro
e non so chi tu sia:
lo dica qualcuno, dica
almeno cosa sei, o Ruakh?

Dio, ho paura di urtarti:
e non so ove tu sia,
dove incontrarti.

Dio, ho paura e ti amo
perché mi salvi da ogni paura:
Dio, mia pace e mia
terribile Notte.

Dio vicino assente lontano
io ti parlo e tu…

O tu che conti le stelle nei cieli,
e gli uccelli nelle foreste,
e i viventi del fondo mare,
chi sei?


Dio, mistero dell’uomo. In Turoldo Egli alimenta l’impazienza della luce, la nostalgia della sorgente, la sete dell’amore, il martirio della lontananza.


Tu
infinito
che mi avvolgi
e io sempre
a una infinita
distanza.
Tu che incombi
fino a schiacciarmi
e io che non posso
raggiungerti mai.


Quando la poesia di Turoldo incontra Cristo, la riflessione su Dio si fa più pacata e più serena.
Il Dio silenzio diventa Parola; il Dio lontananza è l’Emmanuele, il Dio-con-noi; il Dio nascosto ti cammina accanto, attento alle tue lacrime, coinvolto nel tuo destino. La vicinanza di Dio nel Cristo dà stupore e pace si traduce in adorazione.
Il Dio-fatto-uomo, per l’abisso di sapienza, di forza creativa e di amore, affascina e suggerisce una resa che prorompe dalla passione di un’anima investita dalla Rivelazione. Soltanto in questa luce è dato comprendere la «follia dell’amore di Dio».


Amore, che mi formasti
a immagine di Dio che non ha volto,
Amore che sì teneramente
mi ricomponesti dopo la rovina,
Amore, ecco, mi arrendo:
sarò il tuo splendore eterno.

Amore, che mi hai eletto fin dal giorno
che le tue mani plasmavano il corpo mio,
Amore, celato nell’umana carne,
ora simile a me interamente sei,
Amore, ecco, mi arrendo:
sarò il tuo possesso eterno.

Amore, che al tuo giogo
anima e sensi, tutto m’hai piegato,
Amore, tu m’involi nel gorgo tuo,
il cuore mio non resiste più,
ecco, mi arrendo, Amore:
mia vita ormai eterna.


La sofferenza di Dio che nasce dal suo amore è un tema ricorrente nella sua poesia.
In Canti ultimi una lirica presenta Dio «in pena / per l’uomo: l’immensamente debole /e condizionato Iddio / infelice per la nostra sorte»; in un’altra afferma che Dio, per la tristezza di non poter riversare nel creato la sua plenitudine, si è fatto uno di noi: «tristezza di sapere che noi / - noi soli nell’intero / creato – possiamo / farci del male».
Appare chiara una conclusione: l’amore è la rovina di Dio e la salvezza dell’uomo: «Amore che te rovina / e noi redime».
Accettare i suoi piani? Sì. Anche quando gioca con te e ti fa disperare e piangere, fino a «lacerarti i sensi e fare / un falò del tuo decoro?». Sì, anche allora: «Fare silenzio e tacere! […] E non cercare, / perché nulla è da capire: / è solo Amore / e non ragione».
Quando a p. David fu diagnosticato il cancro, la sua voce di lottatore assunse il tono del canto di lode e di adorazione.
Nei Canti ultimi pone all’inizio questa sigla: «La vita che mi hai ridato / ora te la rendo / nel canto». Quando le “ragioni” umane diventano deserto è ragionevole accettare la luce che le rigenera nella gratuità di un Amore.
Sarà paradossale, ma anche per Turoldo la morte confina con un abbraccio di Dio.

Io vorrei morire come l’aurora
disfatta nel sole, come la notte
nell’aurora, come la luce nella notte […].
Sentire così
quanto dev’essere forte
l’abbraccio di Dio che mi ha fatto
per la mia Morte,
per questo spazio ricolmo
solo dal silenzio del Suo Verbo
risucchio di tutte le parole.


Questo Turoldo è pressoché sconosciuto o semplicemente rimosso.
L’orizzonte di tutta la sua testimonianza ha radici bibliche e suppone una fede di assoluta maturità.
Se non si ricupera il Turoldo della fede, diventa scipito anche il suo travaglio civile.
Ricordandolo nel ventennio della scomparsa, le stesse manifestazioni si riducono a show se non incarnano in qualche modo la sua fede.
La civiltà contadina è scomparsa; il suo fascinoso documento Gli ultimi, preziosissimo per l’arte cinematografica friulana, rifiutato quando era momento critico-anticipatore, è forse oggi solo un documento archeologico; il costume, l’intreccio dei rapporti essenziali, sofferti con dignità generatori di misura e di sapienza, aperti alla trascendenza che lui onorava, si perdono nella banalità dei consumi e nel vuoto di contenuti; gli equilibri o squilibri nazionali e internazionali sono sempre più distanti dalla libertà, dalla giustizia, dalla pace; la sua partecipazione alla rinascita del Friuli dopo il terremoto, sognato con accenti di redenzione e di riscatto biblico, si riduce a qualche cosa di onirico: il presente si sta omologando alla cultura e alla prassi che fa degli interessi e dell’individualismo un assoluto irrinunciabile.
La comunità-paese con la “sua gente”, come lui amava chiamare i paesani dignitosi, frugali, sapienti, stanno morendo perché non osano neppure generare più figli. Quale futuro per il “suo” Friuli?
Quale la nostra responsabilità?
Il Friuli che lui amava e stimava è possibile senza la fede che ha nutrito la sua testimonianza?
Il suo appello ha ancora in noi una risonanza operativa?




Mia gente, ritorna alla fonte segreta
donde traevi la prodigiosa forza
a misurarti con la sorte, e umile
volontà ti soccorreva a non cedere,
e orgoglio ti rendeva leggendaria
nell’inaudita fatica: ancora
germoglino le nodose radici
e insieme alle corti in mezzo ai campi
risorga dalle macerie la tua
nobile anima, ora che altra
morte più amara ti minaccia.
Una diga innalza di affetti e ricordi
a queste “monoculture” d’America:
il tesoro difendi della tua dignitosa
povertà degli avi e la memoria
sia il tuo blasone: memoria
dei tuoi vespri domenicali quando
una festosa umanità inondava
villaggi e campagne: ora che invece
serpenti di macchine pure te
assediano da tutte le strade, e pure te
seduce questo furioso fascino del Nulla;
e non un segno ormai traspare
di gioia dalle tue sagre, e di droga
figli anche tuoi, o mio Friuli,
appassiscono dalle serene contrade:
tu che eri, Friuli, il paese raro
della “meglio gioventù”: mio Friuli
ritorna ad essere la terra
che il mondo con invidia amava,
l’Eden che dalla capitale devastata
il tuo poeta sognava: un Eden
finalmente raggiunto
dopo l’inevitabile morte…



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