lunedì 14 agosto 2017

TUROLDO su don MILANI _ Conferenza del 7 marzo 1978

Abbiamo ricevuto dall'amico  Consalvo Fontani (consalvo_fontani@libero.it)   
questo interessantissimo documento , 
che pubblichiamo con la sua autorizzazione.

Caro amico, cara amica,
ho trovato fra le vecchie carte il testo di questa conferenza che Padre
David Turoldo tenne nel marzo 1978 a Vertova, vicino a Bergamo, su Don
Lorenzo Milani.
Penso utile farla conoscere agli amici.

Consalvo


31 luglio 2017


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DON LORENZO MILANI: PRETE

 Conferenza di


PADRE DAVIDE MARIA TUROLDO


Vertova, martedì 7 marzo 1978.

Ringrazio prima di tutto don Pino e gli amici che mi hanno chiamato: è un’occasione buona per rinnovare la nostra amicizia e anche per aiutarci a credere nel nome di un uomo che ha dato la sua vita per la fede.
Così, nella familiarità, nell’amicizia, nella confidenza con cui vogliamo passare la serata, vi dirò francamente che sono un po’ scombussolato, perché non sapevo che già era stato qui a parlare a voi Padre Balducci su don Milani
lo e Balducci abbiamo vissuto insieme con don Milani. Nella nuova edizione del libro di Neera Fallaci “Dalla parte dell’ultimo”, don Milani ed io apriamo insieme la serie delle fotografìe. Poiché Padre Balducci vi ha già parlato, non so come io possa dirvi delle cose che voi già non sapete. Ad ogni modo, rifletteremo insieme su “Don Milani: prete”.
Con molta fatica io ho scritto su don Milani e con molta fatica ho accettato di parlarne, non solo perché l’ho conosciuto, ma anche qualche volta l’ho confessato, e quando si confessa, si è presi da quel senso di rispetto, di venerazione, di riserbo; si ama parlare poco, non perché non si abbiano da dire delle cose belle o brutte – nel senso che sono confidenze che appartengono ad altri mondi, per cui non vorrei che venissero sottoposte a nessuna strumentalizzazione o sfruttamento - ma perché sono le cose più sante della terra, perché sono cose di Dio.
Devo dire che ho conosciuto don Milani la prima volta che è venuto a confessarsi da me. Non sapevo neanche chi era; l’ho saputo lì per lì. Dice: «Senti, vorrei confessarmi». Era lì col suo mantello. Poi m’accorgo: «Ma tu sei don Milani......
«Sì». «Parla...»
Ricordo questo uomo: si inginocchia per terra con quel senso dell’umiliazione di se stesso. Mi ha subito sconvolto; mi ha dato l’impressione che non l’avrei dimenticato più. Da lì siamo diventati veramente grandi amici.
Io l’ho conosciuto quando ancora stava a Calenzano, prima di essere mandato a Barbiana.
A causa di Nomadelfia, sono stato il primo ad essere cacciato via da Firenze; mi hanno fatto sempre girare. Dicevano che ero un tipo abbastanza buono, ma che non dovevo fermarmi mai per “non coagulare”.
Don Milani diceva: «Questa sera devo scrivere a Padre Davide». «Aspetto che venga Padre Davide...».
Noi urlavamo insieme tanto si discuteva; era molto bello discutere con lui, perché ci si appassionava.
Era tale la stima reciproca che mi aveva dato da stampare “Esperienze pastorali” dai Servi a Milano. Allora c’era Montini ancora a Milano. Ricordo che per le trattative abbiamo perso più di un anno.
Don Bensi, il vero Padre Spirituale di don Milani, diceva: «Forse è meglio non farlo presentare da padre Turoldo», perché Turoldo era già un nome pregiudicato.
Don Milani, in una lettera a Meucci, diceva: «Forse ha ragione don Bensì; è meglio che non lo stampi Turoldo; riprendiamolo e facciamolo pubblicare a Firenze». E così andò a finire all’editrice Fiorentina. Per un anno intero ho tenuto io il manoscritto, perché don Milani me l’aveva dato. Erano anni in cui Montini diceva questa frase: «Tempi difficili percorrono, in cui non è neanche sufficiente essere prudenti, ma bisogna essere anche astuti».
Don Pino mi ha detto; «Tu di’ quello che ti senti...», e io vi dirò come ho conosciuto don Milani, come abbiamo lavorato, che cosa ne penso e poi ne discuteremo insieme.
Innanzitutto bisogna inserire molto bene don Milani nel suo tempo. Questo vale per qualsiasi uomo e, in particolare, per uomini così difficili, così importanti, ma specialmente per don Milani, perché molto polemico, un uomo di grande pace, di grande fedeltà, ma anche rivoluzionario, di rottura, anche se oggi noi facciamo di tutto per addomesticarlo.
lo ho scritto un articolo infuocato nel decimo anniversario della sua morte (1967/1977), perché non gli succedesse come S. Antonio da Padova, il quale, probabilmente, era il predicatore più violento che io abbia mai conosciuto nella storia della Chiesa; era di una violenza incredibile; è morto a 36 anni di idropisia, deformato, brutto, ma era come una valanga solitària; ha predicato per dieci anni; ha affrontato Ezzelino da Romano, Vescovi, Cardinali.
Mi ricordo che trent’anni fa, prima del Concilio, avevo chiesto di pubblicare in italiano presso la casa editrice dei Servi il “Sermones Domini” di S. Antonio. Quando ho chiesto di pubblicarli, mi han detto di no, perché i “Sermones Domini” sono molto pericolosi, ed è meglio lasciarli in latino, dove nessuno capisce.
Parlando al Vescovo si esprimeva: «Dentro le pieghe rosse delle vostre vesti cola il sangue dei poveri. Razza di vipere! L’asina di Balaam si è accorta quando passava l’Angelo del Signore; qui passa l’Angelo del Signore e voi non ve ne accorgete. Siete peggio dell’asina di Balaam».
E ancora: «I cardinali alle volte sono come i tacchini: quando allargano la coda, mostrano soltanto il sedere».
Che destino questi Santi! Quello di finir per essere protettori di fidanzatine... Belli belli, tutti rugiadosi, invece sono di una violenza incredibile.
Non vorrei che don Milani finisse anche lui come S. Antonio e diventasse protettore di fidanzate.
Oggi è facile parlare di lui, ma allora era veramente proscritto, un uomo isolato, segnato come una peste, come un elemento infettivo; quindi tutta la sua Fede, la sua fedeltà, il suo sacerdozio sono ancora più preziosi e quello che ha fatto è ancora più valido, perché pagato e scontato nella propria sofferenza.
Nonostante questo, era di una gioia grande.
Egli afferma: «Ho Dio e perciò ho la gioia. Tanto Dio non me lo può portare via nessun Santo Ufficio. Dio c’è».
Aveva questo senso di Dio, del rapporto col povero, con l’uomo, con l’amicizia.
Abramo Levi ha scritto su “Servitium” un bellissimo articolo, dove parla di lui, della gioia, malgrado l’austerità, la severità e la crudezza della vita.
Voi siete stati a Barbiana. lo vi sono stato un mese prima che lui morisse, chiamato proprio da lui e mi ha dato da leggere per la prima volta “Lettera a una professoressa”. lo l’ho letta, lui era sul letto, già con la leucemia, in attesa di morire... e parlavamo. Ho notato ancora questo senso della gioia: era veramente l’uomo della grande gioia.
La sua figura va sempre giudicata dentro al suo tempo. Egli nasce nel maggio del 1923 e muore nel giugno del 1967: una vita piuttosto breve.
In piena guerra egli si converte; è figlio di ebrei e viene da una famiglia di alta borghesia, radicalmente laica ed avversa a ogni fede, quasi negata a qualsiasi sentimento religioso.
lo non pronuncio mai la parola “ateo”, perché è un termine molto difficile (io credo che nessuno sia ateo).
La sua cultura era assolutamente antitetica al Cristianesimo, di origine ebraica e perciò molto concreta.
Di colpo, a vent’anni, si converte con furore, con pienezza, con il segno di qualcosa di predestinato ed entra subito in seminario, nel 1943, in piena guerra. Noi siamo vissuti sotto il fascismo e, per 35 anni, sotto la D.C. Non si può prescindere da questo.
Per voi è un po’ difficile capire cosa vuol dire essere vissuti sotto il fascismo; vuol dire essere stati tagliati fuori dal mondo e non aver avuto conoscenza storica del tempo; io credo che anche lui mancasse di conoscenza storica. Poi entra in seminario, lo so bene cos’è il seminario... è un momento di isolamento spaventoso.
Sono uscito dal seminario nel 1940. In seguito sono andato a Milano e ho dovuto cambiare tutte le “categorie”; lasciare tutto quello che avevo imparato, e soltanto nella misura in cui facevo il contrario di quello che mi avevano insegnato, ho indovinato. Potrei raccontarvi delle cose veramente drammatiche.
Nel 1940/41 mi mandarono a dir la Messa ogni mattina alle 5 alla clinica della maternità. Madonna...! Loro allattavano e io davo la Comunione. Era la cosa più bella del mondo.
Ho dovuto rovesciare tutte le categorie mentali e pensare tutto il contrario per poter capire la storia in cui vivevo.
Il fascismo era un immenso seminario; tutti in seminario: in asilo, ecco!
Don Milani nel ‘43 entra in seminario. Nello stesso periodo cade Mussolini; quindi lui non ha veramente conosciuto il dramma del tempo, la storia di quegli anni. Aveva conosciuto una certa storia italiana. Questo è molto importante, perché lui non capisce niente dell’esistenza, non capisce niente...
In seminario era molto zelante, perché è la fede del neofita, del convertito; era ebreo e, quando si dice ebreo, si dice “assolutista”. Gli Ebrei sono i soli cultori dell’Assoluto, del Dio unico.
Esce nel ‘47 e viene mandato a Calenzano, in una parrocchia alla periferia di Firenze.
La Toscana ha tutta una storia spirituale. Ricordatevi che tutti i movimenti religiosi dell’Occidente nascono dalla Toscana e dall’Umbria (Camaldolesi, Francescani, Serviti): è terra feconda, ma nello stesso tempo terra critica; hanno l’intelligenza delle intelligenze.
Don Milani viene mandato a Calenzano e si accorge che qualcosa non funziona. Incomincia a mettere a posto e applica tutta quanta la sua formazione. Subito scopre, per prima cosa, che il popolo è trascurato e soprattutto, del popolo, i più poveri.
Notate che tutto questo avviene in una Firenze, una terra ricchissima di fede. Io ho conosciuto più Santi a Firenze che in tutto il resto del mondo: Elia Della Costa, don Facibeni, La Pira, Nicola Pistelli, don Rosato Monti, Valtoretti: tutti uomini di una grande Fede, per non dire di quelli ancora vivi. - Stranissima Firenze, dove si trova un forte ateismo e il più grande misticismo.
Fu quindi mandato a Calenzano, vicino a Prato e a San donato, dove si vivevano le “Esperienze pastorali”, che forse è uno dei libri più rivoluzionari della letteratura contemporanea.
Egli incomincia a far lo studio del concreto; non fa mai discorsi che vanno sulle teste degli uomini o sui princìpi; lui fa il concreto.
Tu hai fame: se hai fame bisogna risolvere il problema della fame.
Tu sei senza lavoro: bisogna risolvere il problema del lavoro.
Tu sei senza cultura: bisogna risolvere il problema della scuola.
Per lui prima di tutto i poveri, il grande problema dei poveri. Lui trova la più grande povertà dei poveri, quella di mancare della parola. La Chiesa, lo Stato, la società, avevano tolto la parola ai poveri. Milani diceva: «Bisogna restituire la parola ai poveri».
È sua questa famosa frase:
«II mondo si divide in due categorie; non è che sia uno più intelligente e l’altro meno intelligente, uno ricco e l’altro meno ricco: un uomo ha mille parole e un uomo ha cento parole». L’uomo dalle mille parole domina sempre sull’uomo dalle cento parole. Bisogna restituire la parola ai poveri, perché si difendano e si facciano strada da soli.
Non è giusto che il prete faccia il vicario dell’assistenza sociale. C’è una lettera dove dice: «lo mi vergogno di andare a chiedere il lavoro per i poveri. Sono i poveri che devono andare a cercare il lavoro da soli, perché raccomandare un uomo è già umiliarlo».
C’è una pagina nel libro della Neera Fallaci, quando va a raccomandare un certo Franco e poi si vergogna e dice: «Questo è sbagliato; dobbiamo rendere la gente capace di affrontare la vita da soli».
Ad esempio, il padre e la madre non devono sostituirsi al figlio, devono semplicemente insegnargli a diventar grande, a camminare da solo; poi, quando cammina, lasciarlo camminare. Diversamente sarebbe paternalismo.
Da questo nasce la sua concezione della scuola, non soltanto come momento tecnico di formazione con l’acquisto della parola, ma anche come coscientizzazione.
Il Vangelo si può comunicare a due condizioni: o c’è la Sapienza di Dio che supplisce - e allora va bene - o c’è la cultura. Senza cultura o senza Sapienza non si può comunicare neanche il Vangelo. Ma attenzione: non si può tentare Dio e puntare soltanto sulla Sapienza. Vediamo anche di puntare sulla cultura.
Su queste premesse nasce la scuola di Calenzano prima, e quella di Barbiana dopo. Egli dice: «Non è che io debba salvare il mondo intero; devo salvare l’uomo. Allora mi dedico a questi uomini qui, non a quelli che stanno di là» (il terzo mondismo...).
Egli dice che noi a forza di pensare troppo in grande ci dimentichiamo del piccolo. E poi a furia di pensare in grande, siamo sempre pessimisti.
Era pessimista anche lui; molto pessimista di fronte alla società, però aveva sempre il senso della speranza, che vinceva il suo pessimismo. Era convinto che il povero è soprattutto tale perché manca di cultura, manca della parola.
Pertanto la sua scuola avrà quel rigore didattico-pedagogico espresso in “Lettera a una professoressa”. Vi si legge il modo con cui faceva scuola, la stima che aveva dei ragazzi, la sua opera educativa che agiva sempre sul singolo, sul concreto, sul caso per caso.
Quando è partito da Calenzano per Barbiana, diceva: «lo obbedisco, tanto Dio non me lo può rubare nessuno».
Aveva il senso del concreto, del particolare; dove andava trovava il suo mondo, la possibilità di realizzare il suo programma, la sua fede.
Da qui nasce anche il suo concetto di far Chiesa: Lui entra nella Chiesa tradizionale, poi, adagio adagio, si accorgerà che c’è qualcosa che non funziona.
Lui si converte, si fa cristiano, si fa sacerdote e lotta all’interno della Chiesa. Sta dentro proprio per dare una testimonianza di coerenza al suo ideale e perché sente profondamente la sua Missione.
In un primo tempo, effettivamente, don Milani è un po’ come Papa Giovanni: tradizionalista, con il senso della devozione (non della superstizione), della tradizione amata fino in fondo.
Obbedisce ai suoi superiori e devo dire che obbedisce sempre, ma, man mano che cresce, obbedisce diventando disobbediente, tuttavia restando sempre fedele al suo ideale di sacerdote.
Questo è un punto molto delicato; adesso si parla anche di don Primo Mazzolari l’obbedientissimo.
lo l’ho conosciuto molto bene, sono stato anni con lui. So quanto mi ha insegnato. Bisogna stare molto attenti a giudicare l’obbedienza di questi uomini.
Anche Papa Giovanni è stato obbediente, anche La Pira è stato obbediente. Ma sono quelli che hanno sempre fatto quello che hanno voluto. Erano talmente fedeli e talmente carichi di fede che non potevano dipendere né essere condizionati dall’obbedienza cieca.
Quando uno arriva a questo stato di libertà si può dire che è obbediente. Diversamente è un conformista.
Don Milani va in seminario nel ‘43 e nel ‘48 ci sono le elezioni politiche. Egli si butta in buona fede (non conosceva la storia del Fascismo, della Resistenza) e fa anche lui la battaglia del 18 aprile. Non l’avesse mai fatto: è il peccato che lui confessa dal principio alla fine: «II più grande peccato della mia vita il 18 aprile. Noi abbiamo perso in quel giorno che abbiamo vinto; abbiamo perso tutti i poveri».
Nell’urto col quotidiano, con la realtà, viene a scoprire adagio adagio- «Ah non è questa la strada».
Ricordando quella militanza politica, vissuta in nome del partito cattolico, parlerà della Chiesa, chiamandola “la mia Santa Ditta”. E soggiunge: «Speriamo che questo non succeda mai più».
Per lui è stata una cosa veramente scioccante l’aver scoperto che “quello” fu un grande errore, addirittura un peccato; non era secondo la Fede... Da questa premessa egli matura un altro concetto di Chiesa, quello conseguente alla sua scelta: «lo devo essere dall’altra parte».
Un dubbio atroce lo tormenta, ovunque.
lo sono stato in Toscana, ricordo quelle processioni sparute, tutta la gioventù assente.
Egli dice: «lo seguivo Cristo, e lo seguivo volentieri, con convinzione e, nello stesso tempo, non sapevo se stare in processione o andare con quelli là».
Sempre a proposito di processioni, in una lettera si chiede: «Dov’è la vera processione? È quella là o questa qua?».
È mancato di fare giustizia. Ha praticato anche la carità, ma non ha fatto giustizia. È stato l’amore dell’ordine che ci ha accecato. Sulla soglia del disordine estremo mandiamo a voi quest’ultima nostra debole scusa, supplicandovi di credere nella nostra inverosimile buona fede. Ma se non avete come noi provato a succhiare col latte errori secolari non ci potete capire.
Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi, abbiamo solo dormito; è, nel dormiveglia, che abbiamo fornicato con il liberalismo di De Gasperi, coi congressi eucaristici di Franco.
Ci pareva che la loro prudenza ci potesse salvare. Vedete quindi che ci è mancata “la piena avvertenza e la deliberata volontà”. Quando ci siamo svegliati era troppo tardi. I poveri erano già partiti senza di noi; invano avremmo bussato alla porta della sala del convito.
Insegnando ai piccoli catecumeni bianchi la storia del lontano duemila, non parlate loro del nostro martirio.
Dite loro solo che siamo morti e che ne ringraziamo Iddio.
Troppe strane cause con quelle del Cristo abbiamo mescolato. Essere uccisi dai poveri non è un glorioso martirio. Saprà il Cristo rimediare alla nostra inettitudine. È LUI che ha posto nel cuore dei poveri la sete della giustizia. Lui dunque dovranno ben ritrovare insieme con Lei, quando avranno distrutto i suoi templi, sbugiardato i suoi assonnati sacerdoti.
A voi missionari cinesi, figlioli dei martiri, il nostro augurio affettuoso.
Un povero sacerdote bianco della fine del secondo millennio».
Qui dentro c’è tutto il pessimismo storico e la speranza cristiana di don Milani.
Ora è il caso che vi parli di un articolo apparso sulla “Civiltà Cattolica”, dove lui viene accusato di tracotanza, di dogmatismo e rancore.
Non è vero, queste sono proprio facilonerie, da scribacchini.
In realtà, lui ha un limite grosso, se si vuole, ma non è un limite.
Don Milani ha la certezza assoluta che senza giustizia non si può praticare neanche l’amore, quindi è sul fronte della giustizia che si batte e perciò sembra a volte spieiato,
D’altra parte - dice - l’amore senza la giustizia è una presa in giro dell’uomo. Se non si capisce questo punto, sembra più una prevalenza del Vecchio Testamento (la Giustizia) che del Nuovo Testamento (l’Amore). Quindi sembra prevalere l’ebreo sul convcrtito.
Questo è un problema di ordine psicologico da studiare, ma è in questi termini che va giudicato.
lo ho intitolato la mia presentazione del libro della Neera Fallaci “Dalla parte degli ultimi” (2a edizione) come “Santità di grandi tempi”, e dico addirittura che noi ci troviamo di fronte a un uomo che ci accusa ma non perché ha il gusto di accusarci, ma perché sta vivendo la verità in cui crede.
Ecco cosa scrivo: «Che vergogna essere stati contemporanei di Papa Giovanni, di don Mazzolar!, di don Milani, anzi essere stati loro amici e commensali e non avere imparato, non esserci convertiti, ed essere quelli di sempre»...
Tali pensieri mi ronzano dentro mentre leggo questo libro e non riesco ad avanzare. La testa è carica e il cuore salta in gola.
Come arrivare alla fine? E dico che a un certo punto la lettura di questo libro non è neanche una lettura, ma è assistere a un processo e l’imputato sei tu stesso.
E acutamente osservava: «Che strano! Questa Chiesa mette sempre l’aspetto bello dei candelabri verso il popolo e l’aspetto brutto verso Cristo...».
D’altra parte aveva un senso profondo dei Sacramenti, della preghiera, della Comunione.
Aveva un senso di questa Chiesa come l’unico spazio per i poveri, e questa è la vera Chiesa, in contrasto con la Chiesa ufficiale.
E lì ha cominciato a mettersi con gli obiettori di coscienza, con tutti gli emarginati; è diventato un apostolo, un segno per la rivolta nella fedeltà.
Lontanissimo da lui il pensiero di andar fuori dalla Chiesa. E così l’uomo rimane obbediente nella misura in cui diventa sempre più libero.
lo l’ho conosciuto nel ‘54, negli anni in cui era già sacerdote e qui forse è l’esempio più grande che lui dà come prete: quello di conquistarsi lentamente tutta la sua libertà di prete, rimanendo fedele, rimanendo nella Chiesa.
Don Milani che, per certi aspetti formali, rimase un tradizionalista, come prete dei poveri ha prevenuto i tempi, perché viene ordinato nel ‘47, molti anni prima del Concilio, e muore nel ‘67, due anni dopo il Concilio, e non fece neanche a tempo ad assimilarne la dottrina e le riforme.
Entriamo ora a parlare del suo pessimismo, correlato all’idea fissa del suo essere nella Chiesa, nonostante tutto.
Lui sapeva, e questo forse è l’aspetto più drammatico del suo sacerdozio, di lavorare invano, di lavorare in perdita, non aveva nessuna fiducia nella convertibilità della Chiesa. Convinto che la Chiesa, come struttura di potere, non si può convertire, anzi che sarebbe stata in un certo senso spazzata via, rimane, ciò nonostante, un uomo di speranza.
Qui il suo pessimismo storico si salda all’ottimismo cristiano, nel senso che, se è vero che “non si cambia niente”, tuttavia il messaggio di salvezza è sempre vero.
E per questo il libro “Esperienze pastorali” è dedicato ai Missionari della Cina.
Nel ‘54, quando lo scrisse, io gliene chiesi la ragione.
E lui: «Tu pensa che tutta l’Europa e tutta l’Italia, compresa Roma, saranno scristianizzate. Il nostro cattolicesimo non significherà niente. Verranno i Missionari della Cina a cristianizzarci di nuovo».
L’evento cristiano ripete il suo ciclo: la concezione vichiana della storia. C’è un altro particolare: è dedicato ai missionari cinesi del vicariato apostolico dell’Etruria. I cinesi che arrivano nell’Etruria: non c’è più neanche l’Italia. L’Etruria è l’antico nome della Toscana.
Perché «contemplando i ruderi del nostro campanile e domandandosi il perché della pesante mano di Dio su di noi abbiano dalla nostra stessa confessione esauriente risposta»...
«Se dunque da questa umile opera potranno, per il loro ministero, trovare ammaestramento, non manchino di pregare in cinese il Cristo misericordioso perché dei nostri errori, di cui siamo stati a un tempo vittime e autori, voglia misericordiosamente abbreviarci la pena». (San donato/Calenzano, dicembre 1954).
Questo libro si apre così, ma si chiude in quest’altra maniera, una lettera all’Oltretomba riservata e segretissima ai missionari cinesi:
«Voi certo, venerabili fratelli, non vi sapete capacitare come, prima di cadere, noi non abbiamo messo la scure alla radice dell’ingiustizia sociale. Cioè, che cosa è mancato al Cristianesimo d’Occidente?
Alla fine ci ritroviamo non davanti a un fenomeno di grande cultura, ma a un fenomeno di grande santità.
Fin quando la Chiesa non prende il coraggio di dichiarare Santi questi testimoni, siamo autorizzati a pensare che non ha abbastanza coraggio.

* * *

A questo punto don Pino invita i presenti a partecipare al dibattito.

D.) - Non sono un profondo conoscitore di don Milani. Lei parlava prima del famoso 18 aprile. Non so se ho capito bene, se è stata una connivenza di don Milani col potere politico dilagante di allora.

R.) - Se leggete il libro della Fallaci, trovate lettere, sermoni, discorsi, documenti che parlano ripetutamente, almeno una cinquantina di volte, di questo argomento: egli è stato convinto che si doveva fare la battaglia del 18 aprile; lui ha sospeso i sacramenti, ha scomunicato della povera gente.
Questo è il momento che fa da spartiacque della sua biografia. Ma se voi leggete tutte le 500/600 pagine, comprenderete che l’unico suo rimorso è questo: aveva fatto anche lui la battaglia per il liberalismo, per il capitalismo, contro i poveri, contro gli operai. Si è accorto dopo. Dice: «Questo è un peccato che Dio spero mi perdoni». E ha chiesto sempre pubblicamente perdono.
Continuò a provare il rimorso di aver vinto questa battaglia. «È la storia che mi si è buttata contro; è il 18 aprile che ha guastato tutto; è stato il vincere la mia grande sconfitta...».
«Ora che il ricco ti ha vinto col mio aiuto (lettera a un amico) mi tocca dirti che hai ragione; mi tocca scendere accanto a te a combattere il ricco».

D.) - lo vorrei rivolgere una domanda. Come me, qui ci sono persone di media età: noi abbiamo visto un certo tipo di prete prima del ‘68 (anzi prima del Concilio); poi abbiamo vissuto l’epoca del Concilio e della contestazione (in cui sono maturate altre figure di sacerdoti). - Dopo la contestazione, in questo periodo di riformismo, di riflusso, mi sembra che certi preti oggi si pongano una problematica assai diversa da quella del ‘68. Ora tu come collochi don Milani su questi tré fronti?

R.) - Questa è una domanda molto grossa. Penso che quello che ho detto, se ripensato sotto questa luce, possa servire a rispondere e a capire.
Ecco, un po’ come Papa Giovanni, il quale, se lo analizzate bene, è uno degli uomini più fedeli e rivoluzionari della storia. Anzi, direi che era rivoluzionario nella misura in cui era fedele. Non è una contraddizione. Difatti uno che è sempre fedele alle fonti, alla tradizione, è sempre più rivoluzionario degli altri, sempre. Difatti, anche Cristo dice: «Andate a vedere cosa vuoi dire il Dio dei vivi e non dei morti». Ecco la tradizione, la fedeltà; anzi più tu sei fedele, più sei ammazzato.
Papa Giovanni era un uomo fedelissimo, come diceva Padre Bevilacqua nella prefazione al “Giornale dell’anima”, aveva veramente “il vino nuovo nell’otre vecchio”, che l’ha fatto scoppiare.
Cosi era don Milani: egli si converte alla chiesa tradizionale e lui è tradizionale, non tradizionalista; colui che cerca le fonti non può essere preso nel senso della contestazione moderna, perché la contestazione vera e propria scoppia più tardi, un anno dopo la sua morte.
La contestazione vera era già nell’aria. Lui l’aveva anche preparata con le sue “Esperienze pastorali” e con la “Lettera a una professoressa”, con l’obiezione di coscienza.
Era lui che aveva detto: «L’obbedienza non è più una virtù».
Egli comunque è contestatore nel senso cristiano; un cristiano è sempre un contestatore.
Cristo è «segno di contraddizione» (cioè “dire contro”): «Voi siete nel mondo, ma non siete del mondo».
Il che vuol dire, in termini correnti: «Voi siete nel sistema, ma non siete del sistema; voi siete sempre contro il sistema».
In quanto convertito, in quanto credente, in quanto fedele, non c’è dubbio: era fedele alla sua Chiesa, era tradizionale; quanto più prendeva coscienza di questo essere fedele, diventava sempre più contestatore.
Era obbediente e disobbediente, era nella linea ed era contro la linea. Quando uno è libero è così.
La libertà non è fare quello che si vuole, ma è fare con amore quello che si deve. È questo che conta.
Don Milani è forse il più grande o uno dei più grandi esempi di libertà che ha avuto il nostro tempo. Per fortuna non ha vissuto il periodo della normalizzazione (dopo il ‘68), perché se non fosse morto, certamente avrebbe avuto altro condanne, perché era impossibile su quel fronte non fare la colletta delle condanne.

D.) - Volevo chiedere: cosa comporta il messaggio pastorale di don Milani nei riguardi della Chiesa, dello Stato, del sistema?

R.) - È una domanda molto vasta. Prima di tutto egli è stato una testimonianza genuina, autentica della vita sacramentale. Lui veramente credeva nei sacramenti e non li riduceva a strumenti coreografici con un utilizzo puramente didascalico. Per lui erano momenti di salvezza.
Ai sacramenti dava un grosso peso: la preghiera, la messa, il matrimonio; veramente non faceva le cose in serie. Quindi la sua pastorale comporta un rapporto autentico con quello che si crede.
In secondo luogo, nei confronti della Chiesa aveva tutto un altro metodo; lui non fa mai discorsi in astratto. Per esempio, aveva cominciato a fare l’omelia dialogata; lui interrogava i suoi fedeli, cioè: «Dite voi!».
Li adunava, li accoglieva; se voleva restituire la parola, non la restituiva soltanto a scuola, la restituiva anche in chiesa. Quindi ciò comportava tutta una rivoluzione, almeno di comportamento pastorale, nei confronti della Chiesa.
Non insegnava verità che non fossero della Chiesa (in questo senso l’ortodossia è fuori discussione), ma le portava alle estreme conseguenze.
Rispetto allo Stato poi (basti ricordare la “Lettera a una professoressa”) apre un discorso critico, in un confronto serrato con la Legge e la Costituzione: non transige sugli abusi del potere, della classe dirigente e denuncia soprattutto la corruzione della scuola e rivoluziona i metodi scolastici. Nella “Lettera” egli dice: «Voi siete dei giudici, non siete dei maestri». La denuncia totale dello Stato è parallela alla denuncia dell’astrattezza e della non consequenzialità pastorale della Chiesa e in urto con lo Stato.

D.) - Mi riferisco a un’intervista, fatta da un giornalista a La Pira, quando gli domandava: «Scusa, tu sei quasi un profeta, sei poveraccio, fai del bene ai poveri, perché non prendi i voti, perché non sei diventato francescano?». E lui diceva: «Perché non accetto il voto d’obbedienza». Ora io mi chiedo: don Milani avrebbe accettato ancora l’obbedienza?
R.) - Sì, è vero; La Pira anche a me ha detto queste cose.
Egli mi confidava: «lo non mi sono fatto frate perché concepisco l’obbedienza in maniera diversa».
Scusate se entro in ambito personale, perché è la stessa domanda che anch’io mi son fatto, lo ero più vecchio di don Milani, ho vissuto tutta l’esperienza di Nomadelfia. Anch’io sono stato cacciato via.
Giudicando il passato, mi chiedo oggi: avrei obbedito?
È una domanda legittima questa. A questa domanda del... se fosse oggi, è un po’ difficile rispondere. Tuttavia sforziamoci di riflettere. È difficile rispondere perché la storia non si fa mai sui “se”.
La domanda come ipotesi è giusta, lo sarei tentato di rispondere che don Milani avrebbe comunque obbedito, ma non in quella maniera. In quale è difficile dirlo.
lo ricordo don Mazzolari; io l’ho visto piangere; è stato interdetto dall’esercizio della predicazione. Non doveva predicare, lui, uomo di Dio. Condannato da quegli stessi vescovi che, dopo pochi anni, porteranno i seminaristi sulla sua tomba e diranno: «Cercate di essere obbedienti come questo prete».
Ricordo quando eravamo a Napoli al convegno dei Cattolici e lui piangeva. Noi volevamo che parlasse e lui diceva: «Non fatemi parlare perché disobbedisco. Vedi, Padre Davide, quando viene la bufera nella Pianura Padana, dove le nuvole scendono col ventre a terra, ricordati, tu abbassa la testa, lasciale passare, poi rialzala e fai come prima».
Erano altri tempi. Ricordo quando ero a Nomadelfia con don Zeno che diceva: «Salti mortali, ma dentro la barca».
È un mistero. Ognuno ha il suo destino; ognuno la sua missione; ognuno il suo modo di vedere e testimoniare. Così per don Milani, lo ho l’impressione, con l’intelligenza che aveva, col cammino che stava facendo, che egli si comportasse sempre in modo originale, imprevedibile; mi sembra di averlo qui presente; se mi capitava di contraddirlo, rispondeva: «Zitto, bischero!».
Ho paura di dire queste cose... Tuttavia le dico: certamente sarebbe rimasto obbediente, sempre fedele, ma non è escluso che il suo comportamento avrebbe potuto modificarsi, trovandosi in circostanze diverse, perché il mondo cammina.

D.) - Non so fino a che.punto lui si sia liberato di tutto; lui, come noi, è frutto di tutta un’educazione... Era severissimo. Mi ha impressionato il fatto che non ha mai lasciato entrare la sua domestica nella sua.camera da letto. Mi sembra che nemmeno lui sia riuscito a liberarsi del tutto da certe cose almeno...
R.) - Quello che sta dicendo l’amico è verissimo; appunto questo è questione di cultura, di educazione...
Lui, che era di una severità incredibile, ha veramente amato: anzi ha dato la vita per la Chiesa. Perché la sua vita è stata non tanto per la scuola, ma per la Chiesa.
Su questo io non ho dubbi. Sarebbe rimasto fedele, ma (torno a dire) i comportamenti sono imprevedibili...

D.) - Come mai così pochi esempi sono seguiti a quello di don Milani nel rapporto con lo sfruttato, con gli emarginati? Cioè non abbiamo molte figure di questi sacerdoti nella vita sociale. In particolare qui nella nostra Valle Seriana penso che non ce ne sia neanche uno.
R.) - Ecco io non vorrei essere così pessimista... Vuoi che ti dica la verità?
Io ho 62 anni; ho vissuto e girato tanto. Beh!: sono molti i santi che io ho incontrato. Prendi, ad esempio, la mia stessa Parrocchia: vi trovo uomini che, sotto certi aspetti, superano anche don Milani.
Non si ha il metro per giudicare tutto. Chi è più importante? Chi porta avanti il mondo? Può darsi benissimo che mia madre sia più importante di don Milani, sai? Con questo io confermo tutto quello che ho detto di don Milani.

D.) - Ma è un bene che resti isolato, silenzioso, chiuso...

R.) - Ma no! Qual è il bene che rimane chiuso?... Non farei questi giudizi. Capisco che è anche legittimo, ma non mi pronuncerei mai in questo senso.
Stiamo attenti a non farne un mito: ognuno ha un compito diverso. Io, per esempio, credo più all’importanza di mio padre che non a quella di Lenin, sai? È un paradosso, ma serve a rendere l’idea.

 D.) - Ma qualcuno dovrà pure aprire gli occhi alla gente...

 R.) - D’accordo; sto cercando di venire incontro al tuo pensiero. lo porrei la domanda in questa maniera: come mai queste cose che sono quasi ovvie non sono ancora patrimonio di tutta la Cristianità? Veramente sono anch’io un po’ impressionato: come mai i preti non insegnano che “senza povertà” non si può essere cristiani?
Come mai i Cristiani non sono i più generosi uomini del mondo? Questo non significa certo che non ci siano dei generosi. Chissà quanti generosi ci sono qui a Vertova! E non sono sul giornale. Quando uno - di tanto in tanto - te lo dimostra e appare sul giornale, non significa che non ci sono altri generosi.
Il bene è poi molto più silenzioso del male; è proprio della virtù non fare chiasso.
Se il mondo continua, io sono sicuro che c’è più bene che male. Per questo io sono anche tranquillo.
Questo non è soltanto patrimonio dei preti, dei frati: è patrimonio di tutti. Non è neanche patrimonio dei Cristiani, perché ci sono tante persone oneste senza la fede.
Io sulla santità del mondo non ho dubbi.

 D.) - Quando lei mi fa il paragone (per paradosso) che è più importante sua madre, cioè la persona mite, la persona che fa il suo dovere, la persona che non si ribella mai, fa un discorso molto pericoloso, perché la gerarchla ha basato su queste persone la sua sicurezza di potere.
Ci saranno a Vertova, ci saranno in tutta la Val Seriana. Però sono persone sante per me, su un piano spirituale, sono sante “prudenzialmente”, non agiscono male nei confronti degli altri, fanno una vita che si può anche rispettare e giustificare. In effetti, nella società non danno qualcosa di nuovo per far cambiare i rapporti.
Questo discorso che lei ha fatto mi sembra pericoloso e pericolosa l’introduzione che lei ha dato al libro, quando fa la riflessione: «Finché la Chiesa non capirà di santificare questi uomini...», perché abbiamo già visto, abbiamo degli esempi, lei ne ha già citati, che, nel momento in cui uno viene santificato, viene modellato a uso e consumo di una certa gerarchia, di un certo potere. Per me, quindi, impostato il discorso in questa direzione, si fa tutto l’opposto di quello che don Milani si prefiggeva.
A Milani non interessava essere santificato dalla Chiesa, perché si è santificato già per quello che ha fatto. Sarebbe molto meglio che la Chiesa non lo santificasse, ma, da quello che lui ha espresso, portasse avanti un discorso ben diverso.

R.) - Non è che io non abbia coscienza di quello che ho detto, attraverso anche forme paradossali, non per liberare lui dal pessimismo, ma anche per non cadere nel facile giudizio.
Detto questo, io condivido in pieno il tuo pensiero. Ad esempio, io sono a Sotto il Monte dal giorno in cui è morto Papa Giovanni e, che lo santifichino o no, starò a Sotto il Monte.
Santificarlo vuoi dire rovinarlo.
Tomo a dire che mia madre potrebbe essere più santa, anche se non verrà mai canonizzata.
C’è una santità misteriosa che è quella che porta avanti il mondo senza aureole. Ma c’è anche un compito particolare di santità che non va confuso. La Chiesa, invece di canonizzare, in questo momento dovrebbe chiedersi: «II messaggio di quest’uomo viene portato avanti o no?». Questa è la cosa più importante.
Siccome il discorso da farsi era sui compiti, sulla santità, non posso e non devo esaurirmi nel dichiarare santo soltanto uno che è lì buono, santo per se stesso: un San Luigi che non guarda in faccia neanche sua madre perché ha paura dei pensieri cattivi. Ma devo dichiarare santi anche questi uomini che ti disturbano e ti mettono di fronte ai problemi. Questo volevo dire.
Quando la Chiesa non ha questo coraggio allora dico che è una Chiesa che non ha completamente fede.
Non voglio affermare che la santità sia solo questa, anche per favorire una certa speranza negli uomini.
lo sono sicuro che la santità opera un mutamento nel mondo, anche se non sempre è avvertita.
Basta, volevo dire solo questo. Per tutto il resto hai perfettamente ragione; anzi, ti ringrazio.

D.) - lo volevo precisare che non sono di Bergamo; faccio parte di un gruppo culturale a Cene e sono friulano.

D.) - Lei ha puntualizzato l’esigenza di giustizia, quasi mettendo in secondo piano la carità e cioè la giustizia prima dell’amore; la giustizia è però la misura minima della carità.

R.) - La signora mi richiama il punto fondamentale: il conflitto fra giustizia e carità. Non c’è giustizia senza amore, perché una giustizia senza amore potrebbe diventare anche crudeltà.
Come non c’è amore senza giustizia, perché un amore senza giustizia può diventare dabbenaggine. Oggi, ad esempio, ero con un uomo talmente buono che dà via tutto per gli altri. Era andato da lui un ragazzo che gli aveva detto: «Guarda, se mi compri la macchina, io lavoro con te». Quello, quando ha avuto la macchina, è scomparso e non si è fatto più vedere. Ecco, quella non è carità. Gli ho detto di non far cosi, ma lui è incorreggibile.
In don Milani il problema era più profondo: egli trovava che il primo atto di amore era quello di dare dignità a un uomo, quello di dare la libertà all’uomo, quello di non sfruttare l’uomo; egli traduceva questo atto d’amore in fatto di giustizia.
Era convinto che senza giustizia non c’è neanche amore.
E, secondo me, aveva ragione, però era irriducibile, perfino crudele su questo punto.
In una lettera diceva:«Stasera aspetto Padre Davide, perché dobbiamo urlare insieme». E diceva: «Tu sei l’uomo che ancora non ha capito Cristo».
lo esageravo in un modo, nel senso della remissività, e lui invece non si muoveva di un dito. E credo che avesse ragione lui, perché, purtroppo, noi siamo abituati a fare transazioni e sofismi a non finire... e invece lui niente!
Infatti, quando egli raccomanda Franco, un suo ragazzo, al datore di lavoro, dice: «È dei nostri!» E quando viene fuori, scrive quelle bellissime parole: «Franco, ti chiedo perdono; non ho avuto il coraggio di dire che tu sei comunista». - «Ti ho tradito, sono stato un vigliacco. Franco, per poterti trovare un po’ di pane, ho nascosto la verità. Franco, sono stato un ingiusto».
lo gli dicevo: «Ma no: hai fatto bene!».
E lui: «No, così non si deve; piuttosto morire che...».
Questo indica il senso del rigore, il senso della giustizia, il senso della verità;tante volte una verità che era spietata.
Invece era dolcissimo: un fanciullo; poche volte ho trovato preti così affabili; eppure era così. Aveva queste due anime: un carattere rigidissimo e un animo sensibile al massimo.

Questo era don Milani.

lo vi ringrazio tutti della serata passata insieme, nel nome di un carissimo amico.
Speriamo che lui preghi per noi.
Arnvederci!..

 Padre Davide Maria TUROLDO

(Testo ripreso da registrazione su nastro magnetico, non rivisto dal relatore).

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